Il difficile “mestiere” dell’allenatore
Nel mondo del podismo, quello dell’allenatore è certamente il ruolo più difficile. Se il suo lavoro è fatto bene, nel senso che se si ottengono dei risultati positivi, tuttavia restano negli annali e nei ricordi degli appassionati gli atleti che li hanno conseguiti, quasi mai i nomi di coloro che li hanno preparati e in alcuni casi perfino determinati. Questo, per gli “allenatori professionisti”. E per gli “allenatori amici”? Qui il discorso si presta obbligatoriamente a qualche approfondimento.
Chi sono gli allenatori professionisti? Sono coloro che lavorano nella federazione, o nelle strutture affini, che si sono specializzati in base alle loro esperienze e ai loro studi specifici. Hanno quasi tutti un regolare contratto, un “mandato” come spesso si dice, in base quale svolgono la loro attività, sia curando un settore specifico, sia applicando una tabella personalizzata ad un singolo atleta, per altro collaborando con una èquipe medica, dal momento che qualsiasi performance non è che il risultato complessivo di un coordinato lavoro di gruppo. Quando però non si centrano gli obiettivi e non si raggiungono i risultati auspicabili, oppure termina il periodo agonistico dell’atleta, cessa il rapporto atleta-allenatore, senza un particolare disappunto “delle parti”, perché l’una seguirà il suo percorso sportivo in relazione alle mutate condizioni fisiche e prestative, mentre l’altra proseguirà come se nulla fosse con altri, magari trovando nel prosieguo e nella novità ulteriore motivo di stimolo a continuare il lavoro e, magari, a rinnovare il “contratto” con la federazione o con l’associazione con le quali è di riferimento.
Cosa ben diversa avviene per gli “allenatori amici”. Chi sono costoro? Sono quasi sempre dei podisti più anziani, ai quali piace riversare in quelli più giovani tutta la loro esperienza e il loro entusiasmo…, senza nessuna forma di compenso. Anzi, il loro compenso è quello di notare come l’allievo si migliora, seguendo i suoi suggerimenti, che non si limitano all’algida applicazione di una tabella o di un programma. Anzi, il più delle volte l’allenatore-amico partecipa assiduamente alla vita dell’atleta-amico anche e soprattutto fuori dal ristretto ambito podistico…, invadendo per così dire tutto il vissuto del discepolo; magari applicando nel concreto quella massima che vuole il podista impegnato “full time” nella logica della corsa. L’intera giornata è quindi scandita dallo stretto connubio in cui tutto è frammisto, proprio come fra gli amici: interessi, famiglia, gioie, dolori, ansie, aspettative, lavoro… Il mondo appare sotto una luce diversa e alle parti sembra di vivere in un’altra dimensione, più bella e con i contorni della magia…! Quando però succede qualcosa che spezza questa sorta di incantesimo, non avviene come per l’allenatore-professionista. In questo caso, Dio voglia non accada mai, subentra nell’animo delle parti una lacerazione bruciante, capace di mettere in discussione i precedenti e ancora freschi convincimenti. Non c’è stato nessuna nuova conformazione fisica a determinare la fine del rapporto, nessuna fine del periodo agonistico, anzi, le fattezze fisiche e psicologiche sembrano del tutto invariate. Solo…, si spegne una certa luce negli occhi di entrambi, specialmente in quelli dell’allenatore-amico, perché gli viene da pensare di non essere stato in grado di mettere in pratica tutto quello che la vita, non solo podistica, gli aveva insegnato.
In realtà, fra le due figure di allenatore, c’è una sorta di abisso: nella prima si è interrotto un rapporto “cartaceo”; nella seconda uno “affettivo”. E benché, per il nostro modo di vivere, spesso siamo portati a dimenticarcene, sui sentimenti e non sulla carta restano i dispiaceri più acuti: sulla carta si scrive con l’inchiostro; sui sentimenti si scrive col sangue.