Intervista (impossibile) a Dorando Pietri

Siamo a Sanremo, nei pressi dell’autorimessa di Dorando Pietri, il celebre maratoneta, che ci ha gentilmente concesso di fargli un’intervista. E’ domenica mattina e fa’ molto caldo.

Buongiorno, Dorando, grazie per l’intervista. Scusi la franchezza, ma ci aspettavamo un incontro in uno stadio, o in una palestra. Come mai, invece, in un’autorimessa?

E’ qui che vivo ormai da molti anni e non me ne distacco mai. Tutto sommato sto bene, sono tranquillo e mi dedico al mio lavoro con serenità.

Sentiamo una vena di malinconia, in quel che dice.

Sì, è vero, ho vissuto tempi migliori, almeno diversi; erano tempi di viaggi, di rumori, di… corse. Qui, invece, ho trovato una mia dimensione, più pacata. Mi sono, come si dice, realizzato. Molto probabilmente, quello che cercavo non erano le luci e i frastuoni, essere sulla ribalta, ma un lavoro che mi consentisse di svolgere un’attività soddisfacente, un’attività mia ed esclusiva.

Che fosse diverso da un tipo di lavoro subordinato che lei faceva da ragazzo come garzone di pasticceria…

Esatto. In effetti ho sempre cercato, una volta terminata la carriera di podista, un lavoro che fosse tutto mio, del quale io ne fossi l’unico responsabile. In fondo, era questo lo spirito che io avevo nelle gare: era un lavoro che svolgevo nella mia totale e piena responsabilità. Quando iniziavo una gara, la dovevo poi concludere, possibilmente bene, facendo leva unicamente sulle mie capacità.

Però, le corse sono andate meglio rispetto alle iniziative imprenditoriali…

Anche questo è vero. Si è dimostrato che avevo più talento per il podismo che per il mondo del lavoro. Diciamo, tanto per ricordare i miei trascorsi in pasticceria, che “non tutte le ciambelle riescono col buco”. Eppure con le corse avevo guadagnato bene. Pensi, in tre anni di professionismo avevo guadagnato, solo di premi, 200.000 lire, una cifra iperbolica per l’epoca. E avendo quindi un capitale consistente alle spalle, lo investii in un’attività alberghiera, che però finì male. Ripiegai sull’autorimessa, che forse rispecchiava più le mie attitudine, posso dirlo?, da bottegaio, non da grosso imprenditore. Non avevo, non ho, il cosiddetto bernoccolo degli affari.

A proposito di professionismo, lei è stato tra i primi a “esplorare questa frontiera…”

Non è merito mio, mi ritrovai nel periodo delle grandi competizioni, grandi nel senso di lunghe. C’erano gare di cavalli, di automobili, eccetera, tutte su lunghi percorsi. E poiché io venivo dalla maratona di Londra, che scatenò un incredibile entusiasmo non solo evidentemente nell’ambito podistico, venni ingaggiato per un circuito di gare di fondo da correre negli Stati Uniti. Non faccio per vantarmi, ma su 22 gare ne vinsi 17. La prima di queste gare fu contro Johnny Hayes, che risultò primo alla maratona di Londra alle Olimpiadi del 1908, quando io venni squalificato. Ovviamente, lo battei. Corremmo al Madison Square Garden di New York (262) giri e mi presi la soddisfazione di superarlo nel finale, dopo una combattutissima ed esaltante competizione.

Già, la maratona alle Olimpiadi di Londra del 1908. Ma si rende conto che lei è entrato nella storia, pur senza vincere? Il suo caso è veramente unico! Tra l’altro, dopo quell’avvenimento, la distanza classica della maratona è passata dai 40 km precisi a quell’attuale dei 42,195 metri.

E’ forse fu quello il motivo del mio tribolato finale. A quel tempo la maratona misurava 40 km, ed io mi ero preparato per quella distanza. A parte il caldo afoso di quella giornata, veramente insopportabile, arrivai troppo affaticato. Pensi, mi hanno detto, perché io non me lo ricordo, che percorsi gli ultimi 500 metri in 10 minuti! Comunque, quando mi dissero che per volere della regina la maratona doveva avere termine al palco della sovrana, che distava un 2 km in più rispetto ai 40 classici della maratona, io pensai che non ci fossero poi tanti problemi. A quel tempo gli allenamenti che oggi i podisti chiamano “lunghi” non si discostavano molto dai 30 km e i finali si correvano sempre in sofferenza. Non c’era quella specializzazione che c’è adesso, e nemmeno quella conoscenza medico-scientifica di adesso. Per dirla tutta, non c’erano neanche le gare “ultra”; la gara “ultra” era proprio e soltanto la maratona.

Qual è stato il suo record sulla maratona? Tutti noi abbiamo negli occhi e nella mente, appunto, la maratona di Londra del 1908, dove lei praticamente fece la storia e la fortuna della maratona, pur venendo giustamente squalificato perché sorretto dai giudici nel finale, ma lei di sicuro avrà un record personale.

Chiusi la carriera, con la maratona, a Buonos Aires, nel 1910: 2h 38’ 48”. Con l’attività vera e propria, a Parma, nel 1911, con una 15 km che vinsi facilmente. Ma l’ho detto; anni fa le maratone erano una cosa eccezionale.

 Un’ultima domanda: cosa pensa del doping?

Drogarsi significa imbrogliare, soprattutto sé stessi. Lo sport è formativo, chi si droga non è sportivo: lo sport insegna a far leva sulle proprie capacità nel rispetto delle altrui.

 

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