Il tifoso nel podismo

Chiariamo subito un punto. Perché si chiama “tifoso” quello che sbraita, urla e si dimena per una squadra? Perché non si chiama “raffreddato”, “rachitico”, “tisico”, o altro? Intanto, la parola “tifo” viene dal greco “typhos”, cioè “febbre”. Gli ammalati di tifo, quelli veramente ammalati, hanno ben visibili in volto i segni della malattia, che è caratterizzata da una forte febbre con spasmi che modificano le espressioni del viso fino a farle diventare esagerate e parossistiche. Cosa che non accade nelle altre malattie, nelle quali si riscontrano ben altre caratteristiche, più improntate ad una rigidità del volto e ad una marcata manifestazione di debolezza.

 A questo punto ci sembra di sentire le obiezioni: ma il tifoso è, essenzialmente, il tifoso di una squadra, quasi per antonomasia di calcio, non di un singolo campione, rappresentante appunto di uno sport singolo. Non fa’ eccezione il podismo perché, pur avendo al suo interno fior di campioni (diciamo…) resta uno sport essenzialmente individuale.

E’ vero, il podismo ha pochi “tifosi”, perché è uno sport individuale. Il tifoso, più che ad un campione, si identifica con una squadra. E qui vengono fuori tutta una serie di considerazioni che esulano dal contesto sportivo vero e proprio. Per non voler tediare il malcapitato lettore che si fosse imbattuto in questo articolo, ci limiteremo ad una sola riflessione.

L’uomo è un animale gregario, ha bisogno di stare con gli altri. Da solo, l’uomo, non potrebbe vivere. E’ consapevole di questa sua dimensione, che lo rende debole, e si autodefinisce “animale sociale”. Si confronti un uomo su di un’isola deserta con un altro sugli spalti di uno stadio: chi si sentirà più forte? Se, per ipotesi assurda, il podismo fosse uno sport di squadra, avremmo il “tifoso”. Questi, si identificherebbe a tal punto con l’oggetto del suo tifo che ne diverrebbe, in un certo qual senso, dipendente. Ne conoscerebbe la sua storia, le sue cadute e i suoi trionfi, avrebbe la vita condizionata dai suoi risultati. “Vivrebbe” febbrilmente le vigilie delle competizioni e nello svolgimento di esse “vibrerebbe” di partecipazione. Se la gara del suo campione si svolgesse di domenica, e avesse un esito positivo, si comincerebbe la settimana in modo sereno; altrimenti, in tutta la settimana si avvertirebbe un sottile sentimento di apatia e di malcontento. La prestazione cronometrica di rilievo, o il superamento dell’avversario sulla linea d’arrivo, equivarrebbero al gol calcistico, cioè l’esultanza del tifoso del podismo sarebbe contrassegnata da un’assoluta incapacità di controllare la voce e il gesto nell’esultanza, come quando in un coito si arriva all’orgasmo: non è sofferenza quella che si vede sul volto, ma gioia perfetta e felicità assoluta. E l’esultanza del tifoso, unita a quella delle migliaia di altri tifosi, accrescerebbe a dismisura il senso della sua onnipotenza.

Il tifoso del podismo, invece, non è spettatore della sua passione, bensì attore. Gli è negata questa possibilità. Non può assistere allo spettacolo del podismo se non in rare occasioni, o al chiuso della sua stanza davanti ad un televisore, a un computer, a un social. Forse, però, è proprio questa la vera cosa positiva del tifoso del podismo: lui, lo sport, non lo vede, lo fa’. La sua identificazione con il campione è del tutto naturale, né comprende la fatica, l’affanno, la soddisfazione della conquista, la capacità di sacrificarsi oltre il dovuto, la resistenza allo sforzo. E se sul viso appaiono i segni parossistici e incontrollati del tifo, questo può non sembrare più una malattia, ma può apparire quasi come una benedizione.

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