“L’arte di correre”, di Haruki Murakami

Avete letto “L’arte di correre”, di Haruki Murakami? No…o? L’abbiamo fatto noi per voi, e adesso ve ne parliamo.

Premesso che i podisti corrono molto e leggono poco, salvo gli articoli che si riferiscono in modo specifico alla loro attività, questo libro andrebbe letto, perché non contiene nessuna formula magica per migliorare le prestazioni personali, cosa a cui mirano tutti i podisti, ma semplicemente una serie di pensieri, soprattutto riflessioni, fatti nell’esercizio della corsa. L’importanza della pura e semplice riflessione su quello che si fa’, in qualsiasi settore, porta l’essere umano a migliorare il proprio rendimento, visto nell’ottica di una diversa e più appagante qualità della vita. Lo stesso titolo fornisce già direttamente al lettore l’intendimento dello scrittor

e sulla corsa e sulla vita: cos’è l’arte, se non una cosa fatta bene? Non si dice, di una cosa fatta bene che è stata fatta “a regola d’arte”? E una cosa, se è fatta bene, non è stata il frutto della simultaneità del pensiero consapevole e riflessivo sull’oggetto dell’attività? L’autore ha scritto tutto quello che ha pensato circa la corsa mentre la praticava, dagli esordi alla 100 km, mettendo in pratica quello che si dice facciano i podisti quando, correndo, cambiano il loro “stile di vita”.

Haruki Murakami ha cominciato la sua vita di scrittore e di podista a 30 anni, quando ha dato una svolta alla sua vita, trasformandosi da piccolo esercente di un pub a scrittore-podista. Egli parte da una riflessione: “Somerset Maugham ha scritto che anche nell’atto di farsi la barba c’è una filosofia. Il che significa forse che per quanto banale sia un’azione, se ripetuta spesso ingenera una sorta di intuizione estetica. Concordo dal profondo del cuore con l’idea di Maugham, quindi può darsi che, annotando le mie personali e modeste riflessioni sulla corsa, io non sia sulla strada sbagliata, tanto come scrittore quanto come corridore. Forse ho un carattere complicato, ma se non metto le cose nero su bianco non riesco a pensare, e per riflettere sul sig

nificato che ha per me la corsa a piedi, ho dovuto rimboccarmi le maniche e buttar giù quanto segue.”

Poi, prosegue con una prosa secca ed essenziale, che va’ al fondo delle cose podistiche e umane, che parte da una considerazione di fondo:

detto in altri termini: “Coprire a passo di corsa lunghe distanze è semplicemente consono al mio carattere, mi fa sentire felice. Fra tutte le forme di esercizio fisico a cui mi sono dedicato, correre è probabilmente la più piacevole, quella più ricca di significato per me.”

Oppure: “Riesco a rendermi conto chiaramente delle cose soltanto quando le percepisco attraverso la mia carne viva, attraverso una materia che posso tracciare con mano. Le trasformo in una forma visibile, e solo allora me ne convinco. Più che di intelligenza, sono una persona dotata di capacità costruttiva a livello fisico.” Ed anche: “Ma compiendo di continuo un tale sforzo e rinnovando le mie cellule a un ritmo così intenso, alla fine ho acquisito una buona salute e mi sono irrobustito. E ho potuto rallentare in una certa misura l’invecchiamento.”

La corsa diviene anche lo strumento per fronteggiare e scaricare le avversità: “Quando ricevo una critica immotivata (a mio parere, s’intende), o quando vengo biasimato da qualcuno di cui davo per scontata l’approvazione, correndo copro sempre una distanza un po’ più lunga del solito. Così faccio consumare al mio corpo la parte di delusione.” Perché: “Le ferite spirituali non rimarginate sono il prezzo che gli esseri umani devono pagare per la propria indipendenza.” Questa condizione, questa dimensione aiuta a comprendere quanto importante sia la capacità mentale di riflettere sugli accadimenti umani e quanto sia utile e opportuno l’esercizio della corsa di lunghe distanze: “Per fortuna la capacità di concentrazione e la perseveranza, al contrario del talento, con l’allenamento si possono acquisire e coltivare, anche potenziare.”

Nel continuo interrogare il suo corpo, anzi nel continuo dialogo col suo corpo, Haruki Murakami è sempre molto sincero e rispettoso degli accadimenti fisici di quella che chiama la sua “macchina”. Quando avverte una certa apatia nel correre dopo aver disputato la sua 100 km, riconosce al suo corpo, e giustifica, l’inevitabile logorio dei lunghi anni trascorsi sulle strade ad allenarsi per partecipare a delle maratone. Chiama questa sua sensazione, sulla quale riflette come suo solito con amorevole attenzione, “abbattimento del corridore”: “Il tempo che farò non è un è un problema. Ormai, per quanto mi sforzi, non riesco più a correre come una volta. Lo ammetto volentieri. Non è piacevole dirlo, ma invecchiare significa proprio questo. Come io svolgo il mio ruolo, così il tempo svolge il suo. E lui lo fa in modo molto più onesto, molto più preciso di me…” E poi continua: “L’importante per me non è competere contro il tempo, ma sapere con quanta facilità riuscirò a correre tutti i 42 km della maratona, quanto piacere proverò, queste sono le cose che vanno acquistando sempre maggior significato.”

Forse, ci siamo identificati troppo con Murakami, anagraficamente, podisticamente e, in un certo senso, letterariamente. Ma sentiamo veramente nostra la storia che ci ha raccontato, quel suo mettere insieme podismo e scrittura nel corso della vita, nel fare di queste due elementi essenziali dell’esistenza i cardini della sua filosofia di vita, innalzandola ad una sorta di realizzazione di un’opera d’arte, fatta cioè con testarda passione e ricerca del vero, fatta solo d’amore universale. Questo amore universale della corsa e della vita Haruki Murakami lo declama alla fine del suo libro, quando lo dedica a tutti i podisti: “Per finire, vorrei dedicare questo libro a tutti i corridori che ho incontrato sulle strade del mondo, a quelli che ho superato e a quelli che mi hanno superato in gara. Senza di loro, forse non sarei riuscito a correre per tanti anni.” E allora a questo punto, noi ci stacchiamo un momento dal gruppo, per salutarlo con affetto.

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