Conoscete il “barefoot running”?

Ogni tanto andiamo a curiosare in giro (giornale, web, enciclopedia…) e ci troviamo di fronte a delle situazioni inaspettate, che sollecitano la nostra curiosità. Avete mai provato? E’ come fare un viaggio senza avere una meta precisa da raggiungere, se non quella di soddisfare la voglia di conoscere un qualcosa che si porrà davanti alla nostra attenzione. E’ bellissimo, basta scegliere il momento opportuno, cioè non quando il ritmo della nostra giornata ci obbliga a fare delle cose prestabilite (lavorare, sbrigare qualche faccenda, eccetera). Ecco, in uno di questi momenti, quello di esplorare “podisticamente” il mondo del running e, nella fattispecie quello delle calzature sportive, ci siamo imbattuti nel “barefoot running”.

Il barefoot running è il correre scalzi. Sapevamo di Abebe Bikila e di Zola Budd, ed avevamo, abbiamo, una certa considerazione del correre scalzi, ovverosia l’utilità indiscutibile delle scarpe per proteggerci i piedi, non solo ovviamente per la corsa, bensì per tutte le nostre attività. Eppure, abbiamo voluto addentrarci nell’argomento, come si fa’ andando a visitare una città inospitale, nel caso fosse possibile vedere comunque qualcosa di interessante.

Alcuni recenti studi sembrano dimostrare che la naturale falcata umana sia stata deformata nel corso dei secoli proprio dalle scarpe, inducendo l’appoggio del piede sul più facile tallone e non sulla pianta del piede, inducendo indolenze (infortuni, podisticamente parlando) alla caviglia, al ginocchio e all’anca. Viceversa, se l’uomo avesse mantenuta la sua istintiva postura, avrebbe consentito il naturale spostamento in avanti del peso del corpo, consentendo tra l’altro il giusto irrobustimento della funzionalità del piede in tutte le sue parti. Le dita, ad esempio, nate per raspare il terreno, ora sono costrette alla completa inattività, chiuse come sono dalla tomaia. Come prova di questa “teoria” è portata la “pratica” del popolo tarahumara (Messico), formidabili corridori tanto che il loro nome significa “nati per correre”, che usano quella che si definisce “calzatura minimalista”, cioè una sorta di sandalo, avente una sottilissima suola e una rigida allacciatura alla caviglia. Sembra che perfino alcune grandi aziende produttrici di scarpe da running stiano studiando questa possibilità tecnica, elaborando dei prototipi, che lascerebbero perfino alle dita di muoversi più liberamente (che fossero fasciate) nel contesto della calzatura stessa.

Noi pensiamo, in definitiva e in parole povere, che le scarpe da running abbiano seguito il percorso della nostra civiltà così come ogni altro aspetto della vita umana, che siano state cioè ennesimo strumento della nostra ricerca della comodità e del lavorare meno. Quello che noi chiamiamo progresso ha prodotto benefici e guasti, sulla cui portata ancora avremo da discutere. L’essere umano è in grado di esplorare l’universo, ma è diventato quasi incapace di svolgere le attività primordiali, come il saltare, il lanciare, il correre…; è’ l’inevitabile prezzo che deve pagare, quindi, alla ricerca del suo desiderio di conoscere e dominare la materia, di conformare l’ambiente in cui vive alle sue necessità. Un rimedio? Sempre quello: l’educazione dei ragazzi. La corsa con le scarpe induce all’errore di falcata? Educhiamoli.

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